Gira, gira la ruota della fortuna. E poi tra una vincita e una battuta da Bagaglino la barca in mezzo al bosco va...

24.01.2014 04:50

Il personaggio del giorno e magari del prossimo ventennio della politica italiana, ovvero Matteo Renzi, pubblicamente è un misto tra Paolo Bonolis e Giorgio Panariello. Dal primo ha preso la velocità dell’eloquio che lo fa sembrare uno Speedy Gonzales della parola, dal secondo il gusto velenoso della battuta. Beppe Grillo che in materia se ne intende ha definito il sindaco di Firenze uno showman. Se si guardasse solo alla propensione da battutaro fiorentino, alla lingua velenosa da toscanaccio impenitente che caratterizza le uscite di Renzi, verrebbe da dire che Grillo ha ragione. O forse è solo perché dopo decenni di grigiore comunicativo dalle parti della sinistra il troppo messo in campo dall’enfant prodige alla fine stroppia. La politica, anche se inevitabilmente andava svecchiata anche nel linguaggio non è né il Bagaglino né il sabato sera di Rai Uno.

Matteo Renzi, va detto subito, è un ragazzo bravo e fortunato. Un giovane vincente e anche predestinato. A partire da quel 1994 quando, allora diciannovenne, si presentò come concorrente a “La ruota delle fortuna” per partecipare al quiz Mediaset condotto da Mike Bongiorno. E da vincente predestinato riuscì a partecipare a cinque puntate portandosi a casa 48 milioni delle vecchie lire.

La parte politica è anch’essa quella di un ragazzo vincente. La sua, quindi, è una ben orchestrata e veloce corsa a tappe con un finale già scritto. Segretario provinciale del Partito Popolare, segretario provinciale della Margherita, presidente della provincia di Firenze poi sindaco della città. Infine, la politica che conta. E così dopo i tempi degli annunci sulla rottamazione dell’intera classe dirigente del Pd, gioca sapendo di perdere le primarie con Bersani per stravincerle l’anno dopo e prendersi tutto il Pd in attesa che gli si porti il Governo su un piatto d’argento.  Qualcuno, esperto di trame e congiure di palazzo, lo vede anche come il regista dei 101 traditori che affossarono Prodi e con il professore Bersani pur di arrivare a fare le primarie della consacrazione.

È qui che Matteo Renzi sta però mettendo in scena uno spettacolo che ha poco dello showman ma si ispira piuttosto a quello di “unto del Signore”. Oppure al decisionismo di craxiana memoria. Ed è un vero peccato, perché Renzi non è solo fortunato: è anche bravo. E quindi non avrebbe bisogno di ricorrere al dileggio, alla battuta offensiva per aumentare il suo potere. Ha vinto alla grande: è davvero il caso di stravincere umiliando persone e personaggi che con lui hanno perso la competizione? Perché allora si ostina a comandare e non a dirigere il suo partito? 

Il sindaco di Firenze si è preso il partito, adesso considera il Pd “cosa sua”. Si considera come il Coppi della Cuneo-Pinerolo del 1949 dell’uomo solo al comando, e di conseguenza il fuoriclasse che non ha bisogno di nessuno. Si è fatto una segreteria a sua immagine e somiglianza, e ora marcia come un treno spedito di cui lui è tutto: treno, appunto, capotreno, stazione e passeggeri. Andrà lontano?  Forse si. Ma la sua corsa segna la fine e per sempre della tradizione del partito plurale e non padronale rappresentato dal Pd nella sua lunga evoluzione.

Nessuno, credo, dalle parti della sinistra rimpiange i tempi delle riunioni interminabili, grigie e piene di sgambetti dei tempi andati. Ma il fuori tutto e tutti, ha più il sapore della svendita che dell’inaugurazione di un nuovo negozio, (spero mi sia perdonata la metafora). Naturalmente nessuno si aspettava da Renzi una continuità politica come quella che portava nelle manifestazioni degli anni settanta ad inneggiare al partito di Togliatti, Longo e Berlinguer. Anche perché, in realtà, Renzi con la sinistra c’entra poco o nulla. Dicono che si sia posizionato lì perché dall’altra parte sarebbe stato sempre un luogotenente e mai un generale. Anzi: “il” generale. Naturalmente sono dicerie e cattiverie gratuite. Ma la struttura che Renzi ha in mente per il partito che con un tripudio di consensi dei suoi  potenziali elettori l’ha nominato leader maximo è quello, come si diceva, della “cosa sua” e di tanti attorno a lui a ciondolare la testa in segno di ammirata approvazione.

Questo è il più vistoso limite manifestato da Renzi, che è poi il limite dei leader che sempre amano circondarsi di gente plaudente, perdendo così il contatto con la realtà.  Il sindaco di Firenze ha però tutto il diritto di provare a fare ciò che meglio ritiene non solo per il Pd ma anche o soprattutto per il paese. Dopo il tempo degli annunci, delle battute e delle uscite alla Fonzi adesso è il tempo – come ricorda Renzi – del fare.  Carne al fuoco ne ha messa tanta e le idee non gli mancano, semmai ne cambia spesso ma questo è un peccato appena appena veniale.

Come sempre, alla fine, saranno gli italiani a scegliere da chi farsi governare e in taluni casi infinocchiare. Se ci sarà servita la fiorentina, ci auguriamo almeno che non sia quella contaminata dal morbo della mucca pazza.